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18 aprile 2012
 

La fine di Lucente e i misteri del Reventino

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Scritto da: Redazione
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I misteri del Reventino. L’amena area montana adagiata tra le province di Catanzaro e Cosenza fa da scenario a degli irrisolti casi di cronaca. Casi di cui si sono occupate le procure di Lamezia Terme, Cosenza e Catanzaro. Cominciamo dalla fine: la sparizione, il 27 agosto dello scorso anno, di Antonio Lucente, 42 anni, avvenuta in località “Abbazia di Curazzo”, al confine tra Soveria Mannelli e Bianchi. La scomparsa dell’uomo è stata denunciata dalla moglie che ai carabinieri ha raccontato d’un appuntamento fissato dalla vittima per quel pomeriggio d’agosto con un conoscente di cui ha indicato le generalità. L’uomo, sentito dagli investigatori, ha negato la circostanza affermando d’aver tuttavia incontrato Lucente ma all’ora di pranzo. Lo scomparso, in passato, era stato testimone d’accusa in alcune inchieste sfociate poi in processi, nei primi anni 2000, nei confronti di esponenti della criminalità lametina. Le ricerche dei resti del quarantaduenne, compiute dai carabinieri nella zona del Reventino, sono rimaste senza esito. La magistratura inquirente lametina è ormai convinta che Lucente sia stato eliminato con il collaudato sistema della “lupara bianca”. La morte silenziosa non suscita infatti allarme sociale e viene presto dimenticata. In quella zona della Calabria era già stata sperimentata nel 2001, quando venne ingoiato dal nulla Antonio Adamo, di Colosimi, amico di Lucente. Pure lui fu convocato ad un appuntamento da cui non fece più ritorno. Rimase solo la sua auto. Le indagini avviate dalla procura di Cosenza non hanno mai dato esiti significativi.
Nel maggio del 2005 stessa sorte toccò ad un operaio di Carlopoli, paese ricadente nella medesima area geografica. Si chiamava Giuseppe Caloiero, 40 anni. I carabinieri ritrovarono la sua vettura Mercedes alla periferia di Cosenza. La magistratura inquirente bruzia ha archiviato il caso, classificandolo come “lupara bianca”.
Ma al Reventino è legata una storia unica nel panorama criminale europeo. La storia di Salvatore Belvedere, fu Francesco, classe 1914, personaggio sconosciuto e leggendario. La sua vita sembra frutto della fantasia d’un romanziere. Del suo fittizio decesso sul territorio patrio e della successiva e ben congegnata “resurrezione” in terra straniera, s’è avuta finalmente prova grazie ad un’inchiesta condotta dal pm di Catanzaro, Gerardo Dominijanni. Approfondiamo.
“Don Salvatore”, ufficialmente residente al civico 77 di via Fiorentino a Sambiase, scomparve nel nulla il 3 giugno del 1970 dopo una clamorosa evasione dal carcere di Nicastro compiuta insieme con Pino Scriva, dinamico rampollo d’una famiglia di “uomini di rispetto” di Rosarno, Carmelo Filleti, nato a Sinopoli ma domiciliato a Torino, e Michele Montalto di Siderno. In una calda notte d’estate, un componente del quartetto finse un attacco di cuore in cella determinando l’immediato intervento d’una guardia e dell’appuntato responsabile del braccio carcerario. I due poliziotti penitenziari vennero subito legati e imbavagliati. Scriva, Filleti, Montalto e Belvedere aprirono, usando le chiavi delle guardie, i cancelli e, dopo aver scavalcato il muro di cinta interno, s’avventurarono sul tetto della vicina chiesa di San Francesco da dove, usando delle lenzuola annodate, si calarono poi nel cortile della canonica guadagnando così la libertà. Pino Scriva emigrò in Francia e venne poi arrestato a Nizza; Filleti e Montalto rimasero in Calabria mentre Belvedere venne dato ufficialmente per morto nell’agosto del 1971. Tra i boschi di Conflenti, nel Reventino, fu infatti ritrovato un corpo ormai scheletrito che Federico Belvedere riconobbe, grazie alla cinghia rimasta appesa ai pantaloni, come quello del padre Salvatore. I resti vennero inumati nel cimitero del piccolo centro e la vicenda umana e processuale dell’evaso cinquantaseienne venne considerata chiusa per sempre. La sopravvenuta morte, escludeva che Belvedere potesse scontare le condanne definitive per sequestro di persona che gli erano state nel frattempo inflitte. Il diabolico piano elaborato consentì allo ‘ndranghetista di Sambiase di sfuggire alla giustizia. Grazie all’aiuto d’un vecchio amico, Pasquale Montesanti, personaggio di grande autorevolezza del Lametino, l’evaso riuscì infatti a procurarsi dei documenti falsi, intestati a Francesco Raso, ed a raggiungere la Corsica per vivere una seconda giovinezza. Nell’isola francese l’uomo diventò proprietario d’un ristorante, gestito da un’amica, e vi rimase sino alla fine dei suoi giorni.




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